MICHELANGELO PERGHEM GELMI 1911 - 1992

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Galleria “La Faretra”, Ferrara, novembre 1973, personale.
Testo critico di Luigi Serravalli.

Surrealismo di Perghem.
Per quanto le nuove correnti propongano teoriche sempre più intellettualistiche, astrattizzanti, disimpegnate, direi che ricevo continue conferme dei fatti molteplici a monte di una esperienza artistica, dove tutto concorre per un discorso finale che sarà, al tempo stesso, univoco e polisenso. L’artista rielabora quanto raccoglie dalla corrente psicologica ed antropologica per definirsi, nel segno, nella forma, nel colore. Ma la ricchezza delle esperienze, l’impatto con i casi di vita, il fondamento della cultura, l’esame delle situazioni, costruiscono fittamente l’attrezzeria dalla quale l’artista deve ricavare le fonti d’interesse, e, sopra tutto, la spinta e le tensioni. Molta arte contemporanea nasce dal complesso di fugace l’alienazione porta all’artista. Ma l’artista uomo si situa di fronte alla sua opera con ben diversa padronanza, imperio, tanto da arricchirla e complicarla, movimentarla per raggiungere uno scopo estremamente sfaccettato e complesso.
Prima dell’opera cerco l’uomo. Così sono stato a visitare Perghem nel suo studio, in Trento, in via Venezia. Un grandissimo solaio, ora allestito come campo di manovra dell’artista. Alcuni semplici accorgimenti hanno reso la soffitta, abitabile e confortevole, ma molto del primitivo è intatto. Uno studio duro, di antica fattura (ci lavorò Moggioli) molte vecchie travi esposte, pietre grigie, forti spioventi: dappertutto mucchi di tele, cavalletti, tavoli di lavoro. In un posto così un uomo si trova bene, libero, attivo a patto di possedere un forte carattere, di trovare le cose dentro, non nelle astruserie dell’arredatore che denotano spesso povertà ed insicurezza. Qui Perghem è approdato dopo anni di vita. Fu allievo all’Accademia Albertina di Torino di Enrico Paulucci, e, inviato in Provenza durante la guerra, ha avuto un incontro di prima mano con la pittura francese. Da Cannes a Tarnopol prigioniero dei tedeschi. Dipinge anche in Polonia e organizza una personale nel Lager di Deblin Irena. La prigionia gli offre la possibilità di lavorare solo alla pittura, di scavare dentro sé stesso, meditare su linee di forza esistenziali. Tornato in Italia si dedica alla professione di ingegnere. Emigra in Argentina dove insegna dal 1949 al 1955 presso l’Università di San Juan (Universidad Nacional de Cuyo). In Argentina è ingegnere, professore, pittore e organizza alcune personali. Ancora in Italia si dedica alla professione e segue le sue due inclinazioni costruire e dipingere. Ultimamente, prepara alcune mostre personali Trento, Rovereto, Cortina d’Ampezzo, Flayosc (Francia) ed ora alla Galleria “La Faretra” di Ferrara. Elementi, tessere delle quali bisogna tener conto per arrivare ad una visione d’insieme, capire questo pittore che si è formato nell’ambiente del”900” fra Trento, Torino, la Francia e il Sudamerica, a poco a poco, ha scoperto una sua vocazione surrealista.
I quadri prima della guerra sono paesaggi, ritratti, figure, una pittura tonale, equilibrata nelle masse, negli schemi del tempo. Ma un paesaggio di notevoli dimensioni denota all’occhio attento, sintesi ed analisi: l’uomo che ordina la natura e le sue impressioni, e che, di pari passo, esprime una emozione razionalizzata, accostandosi al dato oggettivo con il reale interesse dell’artista e del tecnico che niente trascura ed ha acquistato una sua padronanza, un suo ritmo nel muoversi sulla tela. Le conoscenze prospettiche, di mestiere, non guastano nello studio dei rapporti fra piani e profondità: così questo paesaggio conserva una sua notevole autorità.
Tuttavia, più oltre, il Perghem si deve essere proposta una maggiore libertà sulla tela ed essere arrivato, attraverso l’analisi delle tante tendenze, dei tanti “ismi”della koinè internazionale, alla scelta, alla simpatia, per il surrealismo come più adatto al suo bisogno di libertà nell’ordine. Surrealismo, approdo di diverse tendenze, di una complessa cultura iconica. Perghem è colorista (si veda una cartella di lito, un po’ alla Dufy, dedicate all’isola d’Ischia): è ingegnere propenso per l’architettura, quindi il Décor, l’ornamentale; porta in sé i ricordi di certa pittura trentina (il colore di Depero) e sente vivamente le influenze del neo-liberty, attraverso un processo che non è “moda” ma “meditazione”. L’incontro con Ferrara, città, da sempre, favolosa ed ariostesca è, in questa mostra, dei più felici e giustificati. La flora del Perghem potrebbe crescere lussureggiante nel giardino di Marfisa o completare le simbologie di Schifanoia.
Il surrealismo non è mai stato solo evasione, ma un modo di conoscenza, diverso da quello scientifico, usuale, di tutti i giorni, ma non meno valido e ricco.
Il surrealismo “storico” è quello che tutti conosciamo ma elementi di surrealtà possono essere rintracciati nell’arte di tutti i tempi, appunto perché c’è un modo “surreale” di considerare la vita.
Perghem trova nel surrealismo la necessaria libertà, tuttavia la sua preparazione gli consente di organizzare il quadro in modo eccellente alle volte perfino puntiglioso. Le esperienze di una vita si condensano in metafore vegetali e per quanto, appunto, gli affetti, le esperienze, il “passato” è stato ricco con punte addirittura convulse, così questo mondo di piante e di erbe, di fiori e di foglie, ha una sua interna tensione, vastissime possibilità di racconto, mobilità, imprevedibilità cambiamenti. Fermo nella scelta di fondo il Perghem varia e distingue ogni tela, aggredendo i suoi sogni, le sue fantasie e, perché no, le sue nevrosi (tutti ne abbiamo), con un pluralismo di rese che sfugge ad ogni noia e ripetizione. Il contenuto magico, i simboli, le allegorie floreali, botaniche, vegetali, animali si prospettano in una fantasticazione difficile da classificare. Le piante o i loro elementi sono indifferentemente inventati o reali, appartengono al nostro habitat o a quello sud americano. Ci senti dentro tanto la sensuale esuberanza della Costa Azzurra, della flora mediterranea come quella di un terreno lontanissimo, Amerindo, sotto altro polo. Alcune tele le vedrei ad illustrare le favole di Macunaima di De Andrade, altre in una villa tutta bianca di Grasse o di Menton o contro il mare azzurro di Ischia. Non surrealismo letterario, nato in studio, ma elementi vissuti, sognati, fantasticati, (come un loro supporto sempre reale), abbandonati alla magia di una favola.
Il surrealismo ha conosciuto la sua fase storica dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda. Dovrebbe essere quindi tutto finito, tuttavia oggi assistiamo ad un “revival” del surrealismo come proposta di una nuova fantasticazione da opporre all’astrattismo totale o al realismo troppo oggettivo, epistemologico, sociologico. Perfino pittori, politicamente impegnati, come Margonari, trovano nel surrealismo un modo più adatto per esprimere anche la loro protesta o i loro timori contro, per esempio, la sovrappopolazione o l’inquinamento. La Natura, così rigogliosa di Perghem, potrebbe essere letta come un rovescio di fronte allo scempio quotidiano. Se il surrealismo fu “una macchina per capovolgere lo spirito”, “figlio della frenesia e dell’ombra” (Argon), se arrivò perfino ad essere delirio, la fase attuale del surrealismo non può non apparire meno automatica, meno onirica, meno subconscia e più razionalizzata. Ormai il processo non ha più l’incanto della scoperta. Siamo lontani da Bergson e sappiamo tutto il conto che si deve ormai fare delle categorie di spazio e di tempo. Quindi Perghem si pone di fronte alla sua interpretazione surrealistica con una ben dosata freddezza. I suoi quadri sono impaginati con cura, organizzati dalla mente, dai supporti della cultura, anche se la prima ispirazione nasce dalla “corrente di coscienza”, da un joyciano disordine, da una proustiana reverie. Elemento discorde, stimolante e quasi di sgomento, può essere la profusione di occhi che il Perghem usa mettere nelle sue tele, sporgenti fra le foglie lanceolate delle sue piante tropicali, nel ghirigoro degli ornamenti, nei ripercorsi magazzini del Liberty, fra i pesci tropicali e nelle più arrischiate fantasie. Quest’occhio quasi sempre, anatomicamente ben descritto, è forse il segno stesso della ragione, della presenza dell’artista a speculare le sue creazioni o ad imporsi all’osservatore inquieto da queste pupille aperte che lo fissano ora ironiche, ora meditanti, ora sgomente, segni direi appunto di un’ottica particolare, personale che viene il Perghem denotando e connotando.
I colori vivi, gli inchiostri, le stranezze dell’invenzione, la novità delle scoperte, la padronanza del mezzo e la libertà espressiva, sono tutti elementi che valorizzano queste tele, rendendole particolarmente significanti. Perghem, così, ci racconta i suoi sogni, come chi si alza alla mattina con l’impressione di essere vissuto nel sonno più di quanto, normalmente accada durante il giorno e con una specie di affanno, ancora turbato nel ricordo dalla violenza dei fatti e dei sentimenti, cerca dagli amici o dalle persone care delle interpretazioni che possono, magari essere intuite, ma difficilmente espresse con chiarezza.
Questo invito l’artista, qui, lo rivolge al suo pubblico, un pubblico oggi, abbastanza smaliziato da sapere che surrealtà non è non realtà, ma, solo altro modo di interpretare, rappresentare la realtà. Forma quindi di conoscenza.

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