MICHELANGELO PERGHEM GELMI 1911 - 1992

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TRENTINO, 28 maggio 2003
Testo critico di Franco de Battaglia.
La mostra. A Trento l’antologica sull’ingegnere e pittore beffardo, ma coerente.

Un metafisico dentro il ‘900.
Perghem Gelmi, omaggio al suo talento faustiano (e incompreso).

Il volto asciutto, fiero, lo sguardo a volte perduto dietro visioni lontane, a volte indagatore, ironico, questo era Michelangelo Perghem Gelmi. Ingegnere e pittore (1911-19929 di cui il pubblico trentino può misurare la genialità (e finalmente, senza censure e senza perbenismi, anche le impertinenze) nella mostra allestita a Palazzo Trentini a Trento.
Come urbanista Perghem ha lasciato opere e progetti importanti: i palazzi delle terme di Levico e Merano, un’edilizia “alpina” di cultura e non di kitsch che non ha nulla da invidiare a Sottsass, un progetto per Vanezze (trasformare l’attuale parcheggio in piazza, alzandole il livello, restituendo alla località l’effetto paese e al tempo stesso ricavando un grande parcheggio sotterraneo) al tempo stesso troppo semplice ed onesto per passare al vaglio degli interessi edilizi. Suo, del 1970, anche il progetto per Trento Sud, con un “viale d’ingresso” che ora Busquets vuole riprendere. Ma allora si preferì costruire a macchia di leopardo, fin sulla collina.
Era la pittura, però la sua vera passione, che ora si può seguire nell’antologica di Palazzo Trentini, in un “mix” che colpisce per la sua eterogeneità, per alcuni tratti di somma bravura e per altri di difficilmente comprensibile freddezza. Il fatto è che Perghem dipinse sempre – era il suo modo di esprimersi – si esercitò sempre nel disegno, ma solo a partire dagli anni Settanta si dedicò totalmente alla pittura, maturando dentro di sé un approccio originale, ma al tempo stesso pienamente “novecentesco”. Non a caso il Mart ha accolto nel suo archivio, donata dai figli Maria Rosa, Guglielmina e Mario, la documentazione del suo lavoro, gli appunti e i disegni che spaziano dai campi di prigionia in Germania ai viaggi in Provenza, fino all’incontro con l’arte sudamericana nel suo lungo soggiorno argentino: dal surrealismo al metafisico, fino all’iperrealismo.
Novecento.
In un’epoca in cui i pittori si scelgono una sigla, un’icona che continuano a ripetere per rendersi riconoscibili sul mercato, può stupire la varietà di toni inseguiti da Perghem nel suo dipingere: paesaggi e ritratti, nature morte e pitture di viaggio (dai Maya alla Cina) nudi e vedute di Trento, revival beffardi di quadri famosi, uomini con la testa di mela al modo di Magritte. In realtà in tutta la sua pittura c’è una profonda coerenza.
Perghem, più di altri e prima di altri, capì che lo sbocco del Novecento, dopo il futurismo “meccanico” non poteva che essere la “metafisica”, e che tutta la pittura novecentesca, dal chiarismo al surrealismo, fino all’iperrealismo non è che una variazione sul tema di una (impossibile?) ricerca del metafisico. L’iperrealismo (e nei suoi ultimi anni Perghem lo inseguì puntigliosamente) non è che il culmine di una metafisica surreale: l’uomo che si astrae da se stesso attraverso i suoi dettagli.
Questa è la coerenza di Perghem. L’ispirazione, invece, altrettanto coerente, è quella un po’ faustiana (Perghem era un personaggio forte, autorevole, amato, grande sportivo, gli riusciva bene tutto ciò in cui si cimentava) di dimostrare che con la pittura si poteva entrare in ogni angolo della vita, nel sacro come nella beffa, nella dolcezza più erotica come nell’astrattezza mentale più angosciante. E’ questa la chiave per capire le sue opere: un grande cimento, attraverso la pittura, per mostrare i limiti e le grandezze del “secolo”, del XIX secolo, “di che lacrime grondi e di che sangue non solo la vita, ma anche l’arte”. Il surreale gli serviva anche a mascherare il male, il male di vivere.
C’è un altro aspetto che fa di Perghem un autore pieno del Novecento (occorrerà approfondire l’ottimo catalogo curato con intelligenza da Elisabetta Staudacher e Maurizio Scudiero) ed è quello delle “citazioni”. Molti suoi quadri, in anticipo sulle tendenze postmoderne della transavanguardia, si riferiscono ad altri, famosi dipinti. Ed è un tratto inquietante, ma anche interessante, del suo dipingere, che trae origine, sicuramente , dalla sua frequentazione argentina. Non va dimenticata, infatti la lezione che proprio dalla sua biblioteca di Buenos Aires, in quegli anni, lanciava Borges, quando teorizzava un’arte che si appoggiasse alla letteratura, più “reale”, della vita vera. Perghem ha assorbito quella lezione, non l’ha più dimenticata e l’ha riproposta nel Trentino con i suoi quadri: “citazioni” come un filo d’arianna, per coinvolgervi gli amici, per orientarsi nel labirinto di un secolo irripetibile, nelle sue grandezze e nelle sue viltà (che Perghem conosceva molto bene).

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