MICHELANGELO PERGHEM GELMI 1911 - 1992

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Catalogo della mostra “Michelangelo Perghem Gelmi”, Palazzo Trentini, Trento, maggio 2003, Editrice TEMI.
Per gentile concessione della Presidenza del Consiglio Provinciale della Provincia Autonoma di Trento.

MICHELANGELO PERGHEM GELMI
L’ingegnere pittore
Testo critico di Elisabetta Staudacher

Ai giovani desiderosi di intraprendere gli studi pittorici, Michelangelo Perghem Gelmi consiglia di disegnare il più possibile perché “la personalità – spiega – vien fuori con il continuo esercizio”. E prosegue: “si incomincia imitando, copiando, imitando di nuovo e così si acquista e si affina la personalità che altrimenti non può venir fuori sfrondata da passioni e da impegni”. Non ci si improvvisa artisti e questo Perghem lo sa bene. Non per niente, nonostante le sue qualità innate di caricaturista e disegnatore e una laurea in ingegneria che lo porta a svolgere l’attività di architetto, sente la necessità di frequentare l’Accademia di Belle Arti di Torino, città in cui si trasferisce da Trento per compiere gli studi universitari.
Come egli stesso scrive nella presentazione della personale “Perghem 80” del 1981, “per mia inclinazione artistica non ho mai fatto l’ingegnere, ma l’architetto. Mi sembrava di essere più vicino all’arte sorella, la pittura, che ho sempre continuato a praticare come autodidatta”.
La scelta della facoltà di ingegneria è dettata da necessità economiche. E’ consapevole infatti che la precarietà lavorativa di pittore avrebbe gravato eccessivamente sul bilancio familiare. Nonostante l’impegno di assistente al Politecnico di Torino e l’incarico di capo ufficio tecnico al porto di Fiume, nel 1940 si presenta all’Accademia Albertina per sostenere gli esami di ammissione. Inizia così il suo periodo di apprendistato scolastico durato un anno e mezzo e poi interrotto dalla guerra. Ai corsi di pittura di Felice Casorati, studioso della forma pura e dell’ordine razionale degli oggetti, preferisce quelli di Enrico Paolucci, del gruppo de I sei di Torino che si distingue per l’attenzione all’impressionismo francese nel tentativo di recuperare da questa pittura la libertà della sensazione visiva contrapposta alla fissità della realtà derivante dal mondo classico. Con i suoi compagni Gigi Chessa, Francesco Mencio, Nicola Galante, Carlo Levi e Jessie Boswell, Paolucci frequenta Edoardo Persico prima che il critico d’arte si trasferisca a Milano dove si circonderà di giovani artisti detti chiaristi dalla scelta di schiarire i toni della tavolozza fino ad annullare il senso del volume, linea e colore in auge in quegli anni nella pittura del gruppo di Novecento.
Nelle vedute della Provenza dipinte su tela d’aereo negli anni 1942-1943 durante la seconda guerra mondiale che lo vede impegnato come ufficiale dell’Aeronautica, Perghem è inevitabilmente influenzato da queste correnti artistiche contemporanee che interpreta in modo alquanto personale. Prende spunto dai paesaggi chiaristi di Francesco De Rocchi e di Umberto Lilloni, ma anche dal costruttivismo cézanniano dalle tonalità dei Fauves presenti nei lavori del suo insegnante d’Accademia. Le pennellate corpose dai colori caldi e delicati annullano l’atmosfera fiabesca amata dagli oppositori di Novecento sottolineando la profondità dello spazio fisico e reale. Queste distese di campi fioriti sono una preziosa testimonianza della pittura di Perghem antecedente la deportazione nel lager di Deblin-Irena in Polonia. È proprio là che, complice il comandante del campo, un avvocato viennese poco incline ai metodi nazisti, allestisce la sua prima mostra di acquerelli e schizzi a carboncino compiuti nel lungo viaggio da Cannes a Tarnopol e nel periodo di reclusione. Pochi sbiaditi colori che si confondono nella neve suggerendo l’impressione che i soggetti raffigurati possano scomparire da un momento all’altro inghiottiti dal biancore della superficie di carta. Il silenzio dato da un’immobilità forzata descrive paesaggi immersi in una dimensione irreale come quella vissuta dall’artista che in un campo di prigionia si dedica “a tempo pieno senza problemi di sopravvivenza all’arte amica”, come racconta egli stesso quando ripensa all’esperienza della deportazione, definita “entusiasmante” proprio perché si può dedicare al disegno e alla pittura senza preoccuparsi degli impegni lavorativi che in tempi normali gli avrebbero procurato il denaro necessario per vivere. L’amore per la pittura protegge la sua anima e i suoi pensieri dalle privazioni e dalla miseria inflitte dal carcere forzato. Tutto ciò che lo circonda si trasforma in oggetto di studio per i suoi disegni, pubblicati trent’anni più tardi nel volume “Da Cannes a Tarnopol” e accompagnati da brevi commenti del compagno di prigionia Francesco Piero Baggini.
A fine guerra riprende l’attività di professionista a Torino, città in cui vive per qualche anno con la moglie Antonietta e con la prima figlia Maria Rosa prima di trasferirsi a San Juan in Argentina (1948-1955). Di questo periodo rimangono alcuni scorci del capoluogo piemontese (“Il Po a Torino” e “La Gran Madre di Dio”), realizzati con grasse pennellate dai densi impasti che annullano il tocco leggero e la luce abbagliante presenti nei disegni polacchi. Indubbiamente l’artista sta assimilando ciò che ha conosciuto nel soggiorno provenzale e la sua pittura lascia spazio, da un lato alle volumetrie di Cézanne e del Ricasso cubista, dall’altro alla corposa pennellata vangoghiana. Nel passaggio dal periodo torinese a quello argentino il tratto si semplifica notevolmente. I morbidi nudi femminili ispirati alle donne tacitiane di Gauguin (“Modella”) che avevano preso il posto dei corpi volumetrici quasi sfaccettati (“Gentiluomo di campagna” del 1946), cedono il passo a figure rese in modo essenziale con linee di contorno marcate e decise (“Le comari”). Abiti, architetture, paesaggi perdono dettagli, si snelliscono di particolari come si nota in “Calle Tucuman” quadro premiato al “Salone d’Autunno” di San Juan nel 1955. Sembra quasi che Perghem si avvicini a una raffigurazione semplificata, infantile, in parte probabilmente influenzato dalla presenza in casa dei figli. Con la nascita di Maria Guglielmina e, dopo il rientro in Italia, di Mario, la famiglia infatti si amplia e con essa il bisogno di esprimersi in un linguaggio comprensibile ai bambini. Tornato a Trento nel dicembre 1955, Perghem disegna la città a protagonista principale dei suoi quadri e ne segue le evoluzioni con l’apprensione simile a quella di un genitore. La spia ritraendone la vitalità trovata tra le affollate vie del centro storico in un giorno di festa, i cambiamenti del dopoguerra con Piazza del Duomo invasa da piccole automobili colorate che ricordano tante macchinine di latta, i giochi e i divertimenti dei giovani che pattinano sulla pista di ghiaccio a Port’Aquila, leggere figurine che sembrano volare come i personaggi della pittura di Chagall.
Con il dipinto “Santa Trinità”, esposto alla Mostra Provinciale d’Arte Figurativa del 1961 e nuovamente presentato nel 1963 alla Mostra degli Artisti Trentini presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, propone al pubblico una visione diversa di Trento. Le architetture sbilenche dai colori intensi, con linee di contorno molto robuste, raccolte attorno alla facciata della chiesa, raffigurano lo scorcio di un luogo apparentemente disabitato. L’artista prende possesso degli spazi cittadini e, ambientando le costruzioni realmente esistenti in un contesto quasi fantastico, anticipa l’evoluzione che subirà la sua pittura dai primi anni Settanta quando, terminati gli impegni lavorativi di ingegnere e architetto, lascerà sfogo alla sua indole di pittore. Un pittore surrealista, libero da linguaggi precostituiti, che dipinge un mondo inesistente dominato da un occhio aperto su una vegetazione immaginaria e su figure antropomorfe che vivono in equilibrate assonanze ambientali. La razionalità geometrica tipica della preparazione di ingegnere, interagisce con la poetica della forma e quindi con l’aspetto creativo presente nell’animo dell’artista che si rivela colorato e pungente. “Ho sempre raccolto e indagato – spiega – quelle percezioni e quegli stimoli che reinventano un’ambientazione del reale, giacchè l’assetto convenzionale della realtà, con le sue apparenze visuali oggettive, da tempo non mi appaga più e mi pare che mortifichi l’immaginazione”. Nella scelta coraggiosa di creare nuovi spazi, gode della libertà di renderli abitati da ciò che gli suggerisce la fantasia o i suoi stessi sogni caratterizzati da un’abbagliante solarità. Secondo Serravalli, è come se l’occhio simbolista di Odillon Redon osservasse esperienze surreali – naif di Rosseau il Doganiere e di Ligabue. Un assaggio di reminescenze di storia dell’arte che riveleranno l’abilità di Perghem di rivisitare miti artistici universalmente conosciuti.
L’ossessione per l’occhio che Perghem definisce “la forma più bella della natura”, è dentro di sé da tempo e appare già nel 1962 quando, in occasione della presentazione dell’asilo di Piedicastello realizzato su suo progetto, spiega l’importanza della pianta centrale della struttura che permette agli occhi degli educatori di ruotare tutto il giorno seguendo i bambini nel percorso della giornata. Il fondo Perghem Gelmi custodito dal 1995 presso gli archivi del MART di Rovereto, conserva un plastico e altro materiale riguardante l’asilo citato. Dopo la scomparsa dell’artista, la famiglia ha donato al museo oltre 1400 disegni tecnici, schizzi, bozzetti e plastici delle principali opere pubbliche e private nel Trentino tra cui le terme di Levico (1958)\e di Merano (1960), la scuola d’infanzia ONAIRC di Trento (1964), con chiari riferimenti a Le Corbusier, le case a schiera di Norge in Bondone (1966 circa), il complesso residenziale dell’ECA di Trento (1969). Da non dimenticare i progetti non realizzati ma molto attuali tra cui “Idee per Trento – domani”, vincitore del concorso bandito dal Comune di Trento in occasione del Convegno Nazionale di Urbanistica del 1967, il parcheggio sotterraneo alle Canossiane in Piazza Venezia (1970), il parcheggio sopra la ferrovia e la copertura della stazione (1983). Anche in questo settore Perghem si è sempre distinto con idee efficaci e intelligenti tanto che alcune sue proposte sono tuttora di grande interesse. Il progetto “Idee” per l’area dell’ex Ospedale S.Chiara, ad esempio, prevedeva, oltre un’arteria sotterranea da piazza Fiera verso sud per migliorare lo scorrimento del traffico, un parcheggio di 1300 posti e un auditorium da 2000 posti di cui la città è a tutt’oggi sprovvista. Amante della montagna, grande sportivo fin dagli anni giovanili, Perghem concepisce la costruzione dei multipli abitativi in Bondone nell’estremo rispetto dell’ambiente: forme semplici, dimensioni contenute, materiali durevoli e adatti allo scopo quali il legno e la pietra.
La sua pittura ironica e scherzosa si popola non solo di personaggi inventati e inesistenti, ma anche di volti noti alla realtà locale che diventano ignari protagonisti dell’esposizione di caricature “Tante teste, tante idee” organizzata nel 1976 alla Galleria d’Arte Il Castello.
L’idea nasce dal desiderio di rispolverare le sue doti di caricaturista risalenti agli anni di studi, poi riprese negli anni Sessanta con ritratti dedicati a politici di fama nazionale. Ancora una volta stupisce il suo pubblico presentando lavori caratterizzati da una considerevole forza comunicativa e dall’abilità di cogliere argute introspezioni psicologiche. La mostra cela velatamente il tentativo di provocare le reazioni di persone illustri, professionisti, uomini di cultura e politici che dovrebbero avere a cuore le sorti di Trento e che non sempre si distinguono per pensieri e azioni illuminanti. Una questione molto cara a Perghem che, timoroso che la città dimentichi la sua vitalità minacciata da incompetenze e inettitudini, l’anno seguente organizza la mostra “Omaggio a Trento” sempre presso la Galleria Il Castello. Come sottolineava Franco de Battaglia, il critico che meglio di tutti ha inteso, seguito e amato l’arte di Perghem (in mostra un suo ritratto del 1990, “Professione e passione”), l’esposizione non era “solo un evento artistico, ma anche un fatto di cronaca”. L’artista infatti vorrebbe che i trentini vedessero la città come una casa di vita, un luogo che tuteli e valorizzi la dimensione artigianale. Per questo raffigura in modo provocatorio una città deserta. Un monito a esempio di come potrebbe diventare Trento se le sue peculiarità fossero dovute solamente alle bellezze artistiche. Le architetture sono dipinte con quel tratto semplificato dai contorni spessi già visto nei lavori di vent’anni prima, quando rientrato dall’Argentina Perghem riscoprì la sua città e la ritrasse in disegni a carboncino che ora invece hanno bisogno di essere colorati con tonalità brillanti in ricordo di spazi vivi.
Nel 1981 Trento gli dedica un’importante rassegna nelle sale del Palazzo della Regione, settanta lavori definiti dall’artista “sogni costruiti e pensati in piena libertà, a occhi aperti, ove gli oggetti subiscono una trasposizione tra la loro forma, la loro funzione e la loro ubicazione”. A quest’epoca risalgono i giochi surrealisti di simbolismo magico, allegorico e ironico, vicini a Savinio e a Magritte e concepiti nel costante desiderio di reinventare l’assetto convenzionale della realtà. Alla rilettura di figure cardini della storia dell’arte come la Gioconda di Leonardo (in “Lei ed io”) o “Maya denuda e vestida” di Goya, o ancora un celebre nudo di Modiglioni disturbato dalla figura invadente del “Collezionista”, alterna dipinti tra il surrealismo e l’iperrealismo quali “Otto amici in maschera”, una perfetta imitazione della “Lezione di anatomia” di Rembrandt in cui ritrae illustri amici trentini intenti a compiere un’autopsia. Il titolo del quadro si riferisce alla sua esposizione nella vetrina di un negozio del centro di Trento il giorno di martedì grasso del 1983. Due anni più tardi, le celebrazioni per la nascita di Bernardo Clesio gli suggeriscono la realizzazione di un grande pannello raffigurante il principe cardinale che giudica l’operato dei suoi eredi dopo aver ascoltato il discorso dell’arcivescovo Gottardi accompagnato da una grigia e uniforme classe politica. Ancora una volta l’artista cerca di provocare e di scuotere una città, definita da de Battaglia, “troppo compiaciuta di se stessa e dei suoi limiti, incapace di strappi, di soffrire come di gioire, di rischiare, di pensare in grande”.
Amareggiato da certi atteggiamenti opportunisti e scorretti, dalla perdita di valori, dalla disattenzione verso le piccole gioie giornaliere, negli ultimi anni di vita Perghem cerca di ristabilire i contatti con una quotidianità più sana immergendosi nei ricordi di luoghi e di persone realmente esistenti, incontrati durante i viaggi che compie nel corso degli anni Ottanta in Messico, Cina, Perù e Bolivia. Paesaggi naturali, racconti di culture e testimonianze di stili di vita diversi da quelli occidentali sono raffigurati con l’intento ambizioso di impedire che impressioni e immagini cariche di sensazioni, colori e di storia muoiano nella banalità di un mondo sempre più ostile a valori e principi profondi. Tra questi l’amicizia, un legame saldo e sincero come quello che unisce Perghem al pittore Giuseppe Anesi con cui in questi anni espone alle mostre di Trento e di Bolzano e che ritrae nella scherzosa rilettura di “Déjeuner sur l’herbe” di Manet rititolato “Scampagnata con Beppino e ..”.
Nell’estate del 1992 Michelangelo Perghem Gelmi si spegne a Trento mentre il suo quadro “Veermer copia Picasso” è a Kempten in rappresentanza della sua città a una mostra allestita tra città gemellate. Un dipinto che ancora una volta testimonia la genialità e la creatività che caratterizzano il suo estro accompagnandolo fino alla fine della sua intensa e originale attività.

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